In molte grandi aziende, tra cui The Coca-Cola company, la figura del CMO (Chief Marketing Officer, in italiano equivalente al “direttore marketing“) è stata dismessa a favore della figura del CGO (Chief Growth Officer, in italiano traducibile come “direttore della crescita“).
Questo cambio deriva dalla crescente popolarità del “growth hacking“, una disciplina che mette l’attenzione sulla crescita, il più possibile sostenibile e scalabile (ne avevamo parlato già nel 2014 sul nostro blog).
Chi si occupa di growth hacking (o, vedremo a breve, growth marketing) mette in atto una serie di interventi e attività – tipicamente sviluppate in tempi stretti e con risorse contenute – di cui misura con particolare attenzione gli esiti, per individuare ciò che più può assicurare il raggiungimento degli obiettivi di crescita.
Nel growth hacking i dati hanno un ruolo fondamentale: dalla prioritizzazione delle iniziaitive all’individuazione dei dati che devono essere raccolti, dall’analisi degli esiti alla successive scelte di intervento, tutto passa attraverso i dati, dando evidenza di come il growth hacking sia quanto più possibile “data driven” (e che quindi richieda competenze specifiche in tal senso).
Si tratta di un approccio altamente sperimentale in cui il fallimento è parte integrante del processo e risulta utile ad orientare meglio succcessive sperimentazioni.
A parlare di growth hacking ha iniziato Sean Ellis nel 2010 e successivamente questa disciplina è spesso stata associata al mondo delle startup, dove effettivamente ha trovato inizialmente più terreno fertile, dando anche adito a possibili letture distorte di questa disciplina, in parte anche per via del suo nome.
Se “Growth” infatti mette il focus sulla crescita, “Hacking” viene letto come “Hack”, un modo non ortodosso di fare qualcosa o se vogliamo una scorciatoia o ancora uno “sfruttare una falla” per ottenere il risultato desiderato.
I casi di growth hacking più famosi, come la firma in fondo alle mail di hotmail che ha contribuito alla sua crescita esponenziale, evidenziano questo aspetto: in questo caso si è trattato di un “hack” psicologico.
Quello che però rischia di non emergere dando spazio a questa interpretazione del growth hacking sono le competenze ed i processi utili per arrivare in maniera il più possibile consistente a dei risultati.
Anche per questo motivo si fa sempre più strada la proposta di rinominare il growth hacking in growth marketing, anche se questa definizione a sua volta presenta delle incertezze.
Una delle conseguenze di mettere al centro la crescita, trasformandola in un valore assoluto, è che vengono azzerate le tradizionali barriere tra prodotto, vendite e marketing: tutto può essere rimesso in discussione per migliorare la crescita, dal prodotto ai processi di vendita, dal servizio clienti alla logistica.
Parlare quindi solo di “marketing” può risultare quindi fuorviante, per un processo che ha il potenziale di rimettere in discussione un’azienda nella sua interezza.
Proprio per questa sua trasversalità la disciplina del growth marketing trova notevoli resistenze in ambiti aziendali strutturati in maniera più tradizionale, mentre le realtà più propense al cambiamento riescono a integrarne le tecniche ma soprattutto ad offrire alle proprie persone la formazione utile ad acquisire non solo le competenze tipiche di un growth hacker ma – per quanto possibile – la “forma mentis” che può aiutare nel raggiungere più facilmente dei risultati.
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